Riassunto: Diplomazia di Kissinger – Capitolo 18 – Il Successo e il Dolore del Contenimento

L'arte della diplomazia, di Henry Kissinger. Dettaglio della copertina del libro.

Nel 1994, Henry Kissinger pubblicò il libro L’arte della diplomazia. Fu uno studioso e diplomatico rinomato che servì come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato degli Stati Uniti. Il suo libro offre un’ampia panoramica della storia degli affari esteri e dell’arte della diplomazia, con una particolare attenzione al XX secolo e al mondo occidentale. Kissinger, noto per il suo allineamento con la scuola realista delle relazioni internazionali, indaga sui concetti di equilibrio di potere, ragion di Stato e Realpolitik attraverso diverse epoche.

Il suo lavoro è stato ampiamente lodato per la sua portata e i suoi intricati dettagli. Tuttavia, ha anche affrontato critiche per la sua enfasi sugli individui rispetto alle forze strutturali e per presentare una visione riduttiva della storia. Inoltre, i critici hanno anche sottolineato che il libro si concentra eccessivamente sul ruolo individuale di Kissinger negli eventi, potenzialmente sovrastimandone l’impatto. In ogni caso, le sue idee meritano considerazione.

Questo articolo presenta un riassunto delle idee di Kissinger nel diciottesimo capitolo del suo libro, intitolato “Il Successo e il Dolore del Contenimento”.

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Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i politici americani affrontarono sfide significative mentre osservavano il dominio sovietico estendersi attraverso l’Europa Orientale, nonostante le precedenti aspettative di relazioni internazionali cooperative. La situazione in nazioni come Polonia, Bulgaria e Romania mise in evidenza un disprezzo sovietico per i principi democratici, ponendo un dilemma per la diplomazia americana che era radicata nei principi piuttosto che nella politica di potenza.

Il Presidente Truman, in risposta, avviò una politica severa nel 1946, chiedendo il ritiro sovietico dall’Azerbaigian, riflettendo la sua adesione agli idealistici principi wilsoniani piuttosto che alla realpolitik. Questa politica, pur cercando di promuovere principi universali allineati con lo Statuto delle Nazioni Unite, inquadrò le crescenti tensioni USA-URSS come una battaglia morale piuttosto che una rivalità geopolitica. Tuttavia, a prescindere dalla retorica americana, sfere di influenza geopolitica si stavano inequivocabilmente formando, con i blocchi occidentale e sovietico che solidificavano i rispettivi territori attraverso alleanze e pressioni militari.

Man mano che l’influenza sovietica si espandeva, la strategia americana si evolse per affrontarla e contenerla, sebbene ancora espressa in termini ideologici piuttosto che dirette dinamiche di potere. Le basi filosofiche di questo approccio furono significativamente plasmate dal “Lungo Telegramma” di George Kennan, il quale sosteneva che le azioni sovietiche fossero guidate da una profonda ostilità ideologica verso l’Occidente, rendendo necessaria una posizione strategica a lungo termine da parte degli Stati Uniti.

Le intuizioni di Kennan portarono il Dipartimento di Stato ad adottare una posizione più conflittuale, articolata in un memorandum di H. Freeman Matthews, che riconosceva la necessità di misure sia diplomatiche che, se necessario, militari per contrastare le mosse sovietiche. Questa dottrina evidenziava regioni specifiche a rischio di dominio sovietico ma riconosceva anche i limiti del potere americano, in particolare sulla massa terrestre eurasiatica.

La strategia di contenimento, ulteriormente raffinata dal consigliere presidenziale Clark Clifford, enfatizzava una missione di sicurezza globale americana, sostenendo il supporto per tutte le democrazie minacciate dall’URSS. La prospettiva di Clifford divergeva dalla diplomazia tradizionale, vedendo il conflitto radicato nelle mancanze morali della leadership sovietica piuttosto che in interessi nazionali negoziabili. Questa impostazione ideologica posizionava gli Stati Uniti non solo in opposizione alle politiche sovietiche ma come promotori di un’agenda trasformativa mirata al sistema sovietico stesso.

Avendo stabilito un quadro concettuale per resistere all’espansionismo sovietico, gli Stati Uniti si trovarono ad assumere il ruolo tradizionalmente detenuto dalla Gran Bretagna nel mantenere una barriera contro gli avanzamenti sovietici verso il Mediterraneo. Questa transizione avvenne quando la Gran Bretagna annunciò nell’inverno 1946-47 che non poteva più sostenere da sola Grecia e Turchia. L’approccio americano alla politica estera, profondamente radicato nei suoi distinti principi piuttosto che nelle tradizionali strategie geopolitiche, richiedeva di inquadrare questa resistenza in termini che risuonassero con i valori americani e potessero essere abbracciati dal pubblico e dal Congresso americano, che all’epoca era controllato dai Repubblicani tradizionalmente isolazionisti.

Durante un incontro cruciale il 27 febbraio 1947, funzionari statunitensi, tra cui il Presidente Truman, il Segretario di Stato Marshall e il Sottosegretario Dean Acheson, intrapresero discussioni critiche con i leader del Congresso per assicurare il supporto all’aiuto a Grecia e Turchia. La retorica persuasiva di Acheson, che enfatizzava la netta dicotomia tra democrazia e dittatura, si rivelò fondamentale nel cambiare l’opinione del Congresso. Truman in seguito articolò questa posizione nella sua dichiarazione della Dottrina Truman il 12 marzo 1947, enfatizzando un approccio moralistico e la difesa dei popoli liberi dalla sottomissione, stabilendo un precedente morale che rifuggiva dalla tradizionale politica di equilibrio di potere.

La proclamazione della Dottrina Truman segnalò un profondo impegno a opporsi a qualsiasi forma di governo o gruppo che impedisse la democrazia o la ricostruzione dell’Europa, in particolare attraverso il Piano Marshall annunciato nel giugno 1947. Questo piano era ambizioso, estendendo l’aiuto a tutti i paesi europei disposti a partecipare, compresi quelli nella sfera sovietica, anche se Stalin soffocò rapidamente qualsiasi cooperazione da parte dei paesi del blocco orientale. Gli Stati Uniti si posizionarono non solo come contromisura all’espansione sovietica ma come leader proattivo nella ripresa economica globale, stabilendo un precedente per un vasto coinvolgimento americano negli affari mondiali.

“Le Fonti della Condotta Sovietica” di Kennan, pubblicate nel luglio 1947 sotto lo pseudonimo “X”, articolarono una sofisticata comprensione dei conflitti inerenti tra politica interna e politica esterna sovietica, sostenendo una politica strategica di contenimento che avrebbe prevenuto l’espansione sovietica in punti chiave senza specificare una tempistica per risolvere le tensioni della Guerra Fredda. Questa politica sottolineò un ottimismo americano e un impegno a una lotta protratta contro l’influenza sovietica, caratterizzata da una serie di conflitti che alla fine avrebbero messo alla prova la resilienza e la forza morale del popolo americano.

La strategia di contenimento così definita non solo strategie militari ed economiche ma anche una posizione filosofica più ampia sul ruolo dell’America nel mondo, mescolando le lezioni del New Deal e della Seconda Guerra Mondiale. Il Piano Marshall mirava a stabilizzare economicamente l’Europa per prevenire l’instabilità politica, mentre la NATO fu istituita per garantirne la sicurezza.

La NATO segnò un cambiamento significativo nella politica estera americana, rappresentando la prima alleanza militare in tempo di pace nella storia della nazione, sollecitata dal colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia nel 1948. Questo evento, insieme alla posizione aggressiva sovietica nell’Europa Orientale dopo l’annuncio del Piano Marshall, catalizzò la formazione della NATO. Il rigido controllo di Stalin sull’Europa Orientale, evidenziato da epurazioni di leader comunisti con tendenze nazionaliste e dalla forzata istituzione di una dittatura comunista a Praga, sottolineò l’urgente necessità di una robusta alleanza difensiva. Il colpo di Stato in particolare simboleggiò una minaccia più ampia di prese di potere sponsorizzate dai sovietici in tutta Europa, spingendo le nazioni dell’Europa Occidentale a formare inizialmente il Patto di Bruxelles, che in seguito si evolse nella NATO per includere il supporto militare americano e canadese, solidificando un formidabile contrappeso al potere sovietico in Europa.

Negli Stati Uniti, tuttavia, l’istituzione della NATO fu inquadrata non come una tradizionale alleanza militare ma come una nuova forma di collaborazione internazionale basata su principi piuttosto che su ambizioni territoriali. Questa rappresentazione fu cruciale per allinearsi all’ethos wilsoniano prevalente che scoraggiava la tradizionale politica di equilibrio di potere. Durante le audizioni al Senato nel 1949, questa prospettiva fu enfatizzata da vari portavoce, tra cui Warren Austin, che dichiarò obsoleto il concetto di equilibrio di potere con la formazione delle Nazioni Unite. Questa posizione fu elaborata in un documento del Dipartimento di Stato che differenziava la NATO dalle storiche alleanze militari sostenendo che era mirata unicamente all’aggressione e non contro una nazione specifica, concentrandosi su un “equilibrio di principi” piuttosto che di potere.

La Commissione per le Relazioni Estere del Senato abbracciò in gran parte questa interpretazione, con membri di spicco come il Senatore Connally che promuovevano attivamente l’idea che la NATO fosse fondamentalmente un’alleanza contro la guerra stessa. Questa discussione evidenziò l’approccio quintessenzialmente americano alla politica estera, che cerca di mascherare le tradizionali strategie geopolitiche con principi superiori. Dichiarazioni di funzionari come il Segretario di Stato Dean Acheson e il Segretario della Difesa Louis Johnson rafforzarono questa narrativa, insistendo sul fatto che la NATO fosse difensiva e non simile alle storiche alleanze militari, orientata invece verso la pace e la sicurezza collettiva fino a quando tali misure non avrebbero potuto essere assunte dalle Nazioni Unite.

Questa reinterpretazione unicamente americana delle alleanze militari strategiche come cooperazione internazionale basata su principi fu ulteriormente difesa da Acheson anche dopo la ratifica del trattato. Egli continuò a caratterizzare l’Alleanza Atlantica non come una mera coalizione ma come uno sforzo internazionale progressista per mantenere la pace, promuovere i diritti umani e sostenere i principi di autodeterminazione. In sostanza, mentre la NATO funzionava come una tipica alleanza militare nella pratica, la leadership americana la rivestì con la retorica della sicurezza collettiva e di alti ideali, allineandola a una visione più ampia di ordine internazionale che cercava di trascendere i vecchi paradigmi della diplomazia europea.

La formazione della Repubblica Federale Tedesca nel 1949, unendo le zone americana, britannica e francese, fu un aspetto critico ma meno visibile della strategia americana per contrastare l’influenza sovietica in Europa. Questa mossa solidificò essenzialmente la divisione della Germania, poiché la nuova Repubblica Federale si oppose allo stato della Germania Est creato dai sovietici, rifiutandosi di riconoscerlo come legittimo per oltre due decenni. Questa posizione faceva parte di un più ampio sforzo americano per sfidare la presenza sovietica nell’Europa centrale e sostenere le nazioni che resistevano al comunismo.

Winston Churchill in seguito rifletté sul vigore inaspettato con cui gli Stati Uniti adottarono ed espansero la politica di contenimento che la Gran Bretagna aveva avviato. Il rapido sviluppo e l’esecuzione assertiva di questa politica da parte degli Stati Uniti furono sorprendenti persino per i suoi sostenitori, illustrando un decisivo cambiamento nella politica estera americana dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’allineamento globale in questo periodo rispecchiava la struttura precedente alla Prima Guerra Mondiale, con due grandi alleanze che si fronteggiavano. Tuttavia, la Guerra Fredda si distinse per il suo dominio da parte di due superpotenze che, attraverso i loro ruoli indispensabili e il deterrente delle armi nucleari, impedirono ai loro alleati di intensificare le tensioni in una guerra su vasta scala.

La leadership americana in questo nuovo ordine globale fu caratterizzata da una retorica morale e talvolta messianica, che giustificava le sue azioni sulla base della difesa di valori fondamentali piuttosto che di semplici interessi nazionali. Questa dimensione morale era profondamente radicata nella politica americana, come evidenziato dall’NSC-68, un documento cruciale del 1950 che articolava la strategia americana nella Guerra Fredda in termini morali, affermando che qualsiasi sconfitta delle istituzioni libere era una perdita globale. Questo documento sottolineava la convinzione che l’interesse nazionale americano fosse fondamentalmente legato ai suoi principi morali, fissando l’obiettivo non solo di contrastare ma di trasformare il sistema sovietico.

L’essenza della strategia americana nella Guerra Fredda, come delineato nell’NSC-68, non era semplicemente quella di contenere ma di convertire l’avversario, puntando a un “cambiamento fondamentale nella natura del sistema sovietico”. La strategia americana evitava la diplomazia tradizionale e il confronto nucleare, cercando un risultato trasformativo piuttosto che un accordo transazionale. Questo approccio rifletteva una miscela unicamente americana di idealismo e pragmatismo, proponendo uno sforzo strenuo e duraturo per promuovere la riforma globale e la diffusione dei valori democratici senza aspettarsi una reciprocità immediata.

Questa politica ambiziosa impose immense richieste alle risorse e alla psiche americane, preparando il terreno per un periodo di intensa introspezione nazionale e conflitti interni mentre gli Stati Uniti navigavano le complessità dell’attuazione di una strategia mirata alla trasformazione interna del loro avversario nella Guerra Fredda. L’impegno in una politica estera così completa e moralmente carica avrebbe messo alla prova la risolutezza e la capacità della società americana in modi che i suoi primi architetti avrebbero difficilmente potuto prevedere.

Man mano che la politica di contenimento cominciava a prendere forma, affrontò significative critiche da diverse prospettive. Walter Lippmann rappresentava il punto di vista realista, criticando il contenimento per aver esteso eccessivamente gli Stati Uniti sia psicologicamente che geopoliticamente, cosa che a suo dire avrebbe prosciugato le risorse americane coinvolgendo gli Stati Uniti in conflitti distanti di dubbia importanza. Lippmann enfatizzava la necessità per l’America di definire chiaramente quali aree fossero vitali per i suoi interessi per evitare impegni non necessari in regioni instabili.

Winston Churchill, un altro critico di spicco, si oppose al ritardo dei negoziati fino a quando gli Stati Uniti non avessero raggiunto una posizione di forza, credendo che il potere relativo dell’Occidente fosse al suo apice all’inizio della Guerra Fredda e sarebbe solo diminuito nel tempo. Egli sostenne sforzi diplomatici immediati per assicurare un equilibrio di potere più favorevole in Europa.

Henry Wallace criticò le basi morali del contenimento, suggerendo che gli Stati Uniti non avessero il diritto di opporsi all’influenza sovietica nell’Europa Orientale, che egli considerava una legittima sfera di influenza. Wallace sostenne un ritorno a quello che egli percepiva come l’approccio di Roosevelt: porre fine alla Guerra Fredda attraverso azioni americane unilaterali per ridurre le tensioni.

Queste critiche sottolinearono il complesso dibattito sulla politica estera statunitense durante la Guerra Fredda. Lippmann, in particolare, era scettico sulle assunzioni fondamentali del contenimento come delineate da George Kennan (Mr. X), sostenendo che si basava troppo su esiti speculativi e non lasciava spazio a errori o circostanze impreviste. Lippmann propose un approccio più pragmatico incentrato sul ripristino dell’equilibrio piuttosto che su un contenimento indefinito, che implicava una divisione permanente dell’Europa.

Churchill, pur sostenendo il contenimento, esortava a non ritardare i negoziati, promuovendo l’uso della allora superiore capacità nucleare dell’Occidente per negoziare un accordo favorevole prima che l’Unione Sovietica potesse raggiungere la parità.

Il dibattito si estese a come questi diversi approcci riflettessero le esperienze storiche e le caratteristiche nazionali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Churchill, informato dalla storia britannica di diplomazia pragmatica, vedeva l’urgenza di negoziare da una posizione di forza, mentre i leader americani, plasmati da una tradizione di raggiungimento di soluzioni definitive, favorivano una vittoria più assoluta rispetto al compromesso.

La critica più duratura alla politica estera americana durante la Guerra Fredda non emerse da pensatori strategici o geopolitici come Walter Lippmann o Winston Churchill, ma da una sorgente più profonda del pensiero radicale americano, con Henry Wallace come suo avvocato più prominente. Wallace, attingendo alle tradizioni populiste e radicali americane, si oppose con veemenza alla politica di contenimento dell’amministrazione Truman, accusandola di ipocrisia morale e tendenze imperialistiche. Sosteneva che, adottando tattiche machiavelliche, gli Stati Uniti si fossero allontanati dai loro principi morali, che dovrebbero governare anche le relazioni internazionali.

Wallace credeva che l’Unione Sovietica non fosse intrinsecamente espansionistica ma agisse per paura difensiva dell’aggressione occidentale. Sosteneva che le azioni sovietiche nell’Europa Orientale, sebbene oppressive, fossero guidate da una diversa visione di giustizia sociale, con la quale gli Stati Uniti non avrebbero dovuto interferire. Promosse una politica estera che enfatizzasse la diplomazia e il multilateralismo attraverso le Nazioni Unite, criticando azioni unilaterali americane come il Piano Marshall come manovre imperialistiche destinate a generare risentimento globale.

Nonostante la sua vigorosa campagna, le opinioni di Wallace non riuscirono a ottenere una trazione sostanziale nella politica americana, in particolare dopo eventi come il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia e il blocco di Berlino che evidenziarono la natura aggressiva dell’espansionismo sovietico. La sua corsa presidenziale nel 1948 ottenne un supporto minimo, illustrando il limitato appeal delle sue critiche radicali all’epoca.

Tuttavia, gli argomenti di Wallace prefiguravano temi che avrebbero poi risuonato durante la Guerra del Vietnam, riflettendo profonde preoccupazioni americane sull’integrità morale nella politica estera. Queste preoccupazioni continuarono a influenzare i dibattiti sull’eccezionalismo americano e sulle giustificazioni morali per gli interventi stranieri.

La politica di contenimento stessa, pur criticata per la sua percepita passività e i suoi costi morali ed economici, alla fine rimase la pietra angolare della strategia americana contro l’Unione Sovietica. Critici da entrambi gli schieramenti politici ne discussero l’efficacia e la moralità, con alcuni che sostenevano fosse troppo aggressiva e altri che non lo fosse abbastanza. Questi dibattiti si concentrarono spesso sulle implicazioni del coinvolgimento in conflitti che apparivano tangenziali agli interessi nazionali statunitensi, epitomizzati dalla Guerra del Vietnam, prolungata e divisiva.

Il contenimento fu anche criticato per il dubbio di sé che instigò all’interno degli Stati Uniti, stimolando una rivalutazione dei valori americani e delle basi etiche della sua politica estera. Questa introspezione faceva parte di un dialogo più ampio sul ruolo dell’America nel mondo e sul suo approccio alle relazioni internazionali, evidenziando una tensione tra il desiderio idealistico americano di agire come faro globale di libertà e le realtà pragmatiche della strategia geopolitica.

Alla fine, la politica di contenimento non solo plasmò il panorama geopolitico della Guerra Fredda ma influenzò profondamente anche la cultura politica americana, sfidando la nazione a conciliare le sue ambizioni globali con i suoi valori democratici. Questa lotta lasciò un impatto duraturo sulla società americana, riflettendo sia i trionfi che i traumi dei suoi impegni nella Guerra Fredda.


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