
Nel 1994, Henry Kissinger pubblicò il libro L’arte della diplomazia. Era un rinomato studioso e diplomatico che servì come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato degli Stati Uniti. Il suo libro offre un’ampia panoramica della storia degli affari esteri e dell’arte della diplomazia, con un particolare focus sul XX secolo e sul mondo occidentale. Kissinger, noto per il suo allineamento con la scuola realista delle relazioni internazionali, indaga sui concetti di equilibrio di potere, ragion di Stato e Realpolitik attraverso diverse epoche.
Il suo lavoro è stato ampiamente elogiato per la sua portata e i dettagli intricati. Tuttavia, ha anche affrontato critiche per la sua attenzione sugli individui piuttosto che sulle forze strutturali, e per la presentazione di una visione riduttiva della storia. Inoltre, i critici hanno anche sottolineato che il libro si concentra eccessivamente sul ruolo individuale di Kissinger negli eventi, potenzialmente sopravvalutando il suo impatto. In ogni caso, le sue idee meritano considerazione.
Questo articolo presenta un riassunto delle idee di Kissinger nel ventiquattresimo capitolo del suo libro, intitolato “Concetti di Unità Occidentale: Macmillan, de Gaulle, Eisenhower e Kennedy”.
Puoi trovare tutti i riassunti disponibili di questo libro, oppure puoi leggere il riassunto del capitolo precedente del libro, cliccando su questi link.
La crisi di Berlino evidenziò il radicamento di due grandi sfere d’influenza in Europa, una divisione radicata negli spostamenti geopolitici post-Seconda Guerra Mondiale. Inizialmente, dal 1945 al 1948, Joseph Stalin assicurò la sfera sovietica convertendo le nazioni dell’Europa orientale in stati satellite, ponendo una minaccia latente all’Europa occidentale. Ciò spinse le democrazie dell’Occidente a reagire, portando alla formazione della NATO, all’istituzione della Repubblica Federale dalle zone di occupazione occidentali e agli inizi dell’integrazione europea occidentale.
Durante questo periodo, sia il blocco sovietico che quello occidentale fecero diversi tentativi di minarsi a vicenda, tutti falliti in ultima analisi. Ad esempio, la Nota di Pace di Stalin del 1952 mirava a distogliere la Repubblica Federale dall’alleanza occidentale, ma fallì, in parte a causa della morte di Stalin stesso. Allo stesso modo, il piano del Segretario di Stato americano John Dulles per la “liberazione” dell’Europa orientale vacillò durante il fallito sollevamento ungherese del 1956. Più tardi, l’ultimatum di Nikita Khrushchev del 1958 su Berlino si concluse con i sovietici che rafforzarono il controllo sulla Germania dell’Est piuttosto che rompere l’allineamento occidentale. Dopo la crisi dei missili di Cuba, l’attenzione sovietica si spostò verso l’influenza sul mondo in via di sviluppo, risultando in una bizzarra ma stabile divisione bipolare in Europa, descritta dal filosofo francese Raymond Aron come una situazione chiara ma assurda in cui la stabilità era preferita all’incertezza del cambiamento.
Questa stabilità mise in luce tensioni latenti all’interno dell’Alleanza Atlantica, in particolare dopo la crisi di Berlino. Leader come l’inglese Harold Macmillan, il francese Charles de Gaulle e l’americano John F. Kennedy dovettero gestire le loro opinioni contrastanti sulla dinamica dell’alleanza, sulle strategie nucleari e sul futuro dell’Europa. Macmillan, realizzando la statura globale ridotta della Gran Bretagna dopo la crisi di Suez, cercò di ridefinire il suo ruolo, passando da potenza imperiale a influente strategico, principalmente promuovendo legami più forti con gli Stati Uniti, in contrasto con la spinta della Francia per una maggiore autonomia dall’influenza statunitense.
Nonostante il declino della potenza britannica, l’approccio di Macmillan fu pragmatico; egli riconobbe la necessità di allinearsi strettamente agli Stati Uniti. Questo fu evidente durante la crisi di Berlino, quando sostenne la posizione americana, nonostante i rischi di uno scontro nucleare. I suoi successivi sforzi diplomatici, compreso un viaggio significativo nell’Unione Sovietica, miravano ad allentare le tensioni attraverso lunghe trattative, sebbene con risultati sostanziali limitati.
Storicamente, gli Stati Uniti erano emersi dalla Seconda Guerra Mondiale come una superpotenza globale senza precedenti, esercitando enormi vantaggi economici e nucleari. Questo periodo di superiorità oscurò in qualche modo la comprensione americana della diplomazia europea, che era stata plasmata da secoli di innovazione politica e industriale. Mentre l’Europa, aiutata dagli Stati Uniti, iniziava a recuperare il suo antico dinamismo, la Francia, in particolare sotto de Gaulle, cercò di rivendicare il suo ruolo storico nella statualità internazionale, enfatizzando la sovranità nazionale e l’autonomia strategica.
L’approccio di de Gaulle alla diplomazia fu pesantemente influenzato dalla storia tumultuosa della Francia, specialmente dai traumi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, che lasciarono profonde cicatrici nella psiche nazionale. La sua leadership mirava a ripristinare la dignità e l’autostima francesi, distinguendo le sue politiche dal pragmatismo americano. Questa differenza nell’esperienza nazionale portò a frequenti incomprensioni con gli Stati Uniti, dove l’ottimismo e la schiettezza americani si scontravano con lo scetticismo e la complessità francesi.
La divergenza negli stili diplomatici fu evidente nel modo in cui le due nazioni percepivano le alleanze. Gli Stati Uniti trattavano l’Alleanza Occidentale come una corporazione in cui l’influenza era misurata dai contributi materiali. Al contrario, la Francia, attingendo a una lunga tradizione di strategia diplomatica, dava priorità all’accumulazione di opzioni strategiche e credeva che la vera armonia tra le nazioni emergesse non da procedure formali ma da un equilibrio di interessi contrapposti.
Le interazioni personali di de Gaulle sottolineavano la sua filosofia diplomatica. Sfidò notoriamente la presenza americana in Vietnam e criticò le politiche statunitensi direttamente ai leader americani, enfatizzando un’Europa di nazioni-stato forti e indipendenti. Le sue acute domande sulle strategie americane riflettevano la sua visione più ampia secondo cui la Francia non doveva mai apparire subordinata, in particolare nella sua relazione con gli Stati Uniti.
Durante la sua presidenza, de Gaulle si sforzò di posizionare la Francia come un leader indipendente in Europa, capace di sfidare l’influenza americana. La sua posizione non era radicata nel sentimento antiamericano ma in un approccio pragmatico alle relazioni internazionali in cui gli interessi francesi e americani potevano allinearsi senza compromettere l’autonomia francese. Ciò fu particolarmente evidente durante la crisi dei missili di Cuba, dove de Gaulle fornì un saldo sostegno agli Stati Uniti, dimostrando la sua volontà di cooperare quando gli interessi francesi erano allineati con le azioni americane.
La politica estera di de Gaulle mirava in ultima analisi a preparare l’Europa per un futuro in cui potesse stare indipendentemente dagli Stati Uniti, sostenendo un’identità e un apparato di sicurezza europei che potessero operare senza supervisione americana. Le sue discussioni con i presidenti americani ruotavano spesso attorno a precedenti storici, enfatizzando i ritardati interventi statunitensi nelle Guerre Mondiali come prova della necessità di un’autosufficienza europea.
Questa tensione tra le visioni americana e francese dell’Europa si manifestò sullo sfondo delle crisi della Guerra Fredda, come l’ultimatum di Khrushchev su Berlino, dove de Gaulle mirava a mostrare la Francia come un alleato più affidabile degli Stati Uniti. La sua strategia non riguardava solo il distanziamento della Francia dall’influenza americana, ma l’incremento della leadership francese in Europa, sfruttando paure e aspirazioni storiche per rimodellare il panorama della sicurezza europea.
Charles de Gaulle immaginava un’Europa unificata in modo simile alla Germania di Bismarck, dove la Francia avrebbe giocato un ruolo dominante simile a quello della Prussia in passato. Questa visione cercava di bilanciare vari interessi nazionali: l’Unione Sovietica avrebbe mantenuto divisa la Germania, gli Stati Uniti avrebbero assicurato l’Europa occidentale e la Francia avrebbe incanalato le aspirazioni tedesche nell’unità europea. Tuttavia, la Francia mancava della forza economica e della leva politica per dominare questo assetto, in particolare data la presenza delle superpotenze.
I disaccordi inerenti tra Francia e Stati Uniti erano particolarmente pronunciati nel campo della strategia nucleare. L’Era Nucleare introdusse sfide senza precedenti nella strategia militare, poiché la pura distruttività delle armi nucleari significava che il potere doveva essere gestito piuttosto che semplicemente accumulato. Questo periodo segnò un passaggio dagli impegni militari tradizionali a un focus sulla deterrenza, definita dalla sfida intellettuale di prevenire la guerra piuttosto che condurla. Il nuovo panorama strategico era pieno di dibattiti teorici sull’efficacia della deterrenza, che spesso complicavano le dinamiche delle alleanze.
La strategia americana mirava ad aumentare la calcolabilità della guerra nucleare per rendere la deterrenza più credibile. Tuttavia, gli alleati europei, in particolare la Francia, resistettero a questi sforzi, temendo che rendere la guerra nucleare più concepibile potesse inavvertitamente abbassare la soglia del conflitto. Inoltre, la possibilità di un attacco nucleare indipendente da parte di potenze europee come la Francia creò un dilemma strategico per gli Stati Uniti, che temevano di essere trascinati in una guerra nucleare dalle azioni dei loro alleati.
In risposta a queste complesse sfide, l’America cercò di centralizzare il controllo delle forze nucleari all’interno della NATO, mirando a prevenire azioni unilaterali che potessero innescare un conflitto più ampio. De Gaulle, tuttavia, resistette a questo approccio, considerandolo una violazione della sovranità nazionale e una dipendenza inaccettabile dalle decisioni americane. La sua posizione rifletteva un più ampio desiderio francese di autonomia strategica, enfatizzando il controllo nazionale sulle forze nucleari come componente critica della sicurezza nazionale.
De Gaulle propose una ristrutturazione della NATO che avrebbe creato un direttorato coinvolgendo Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che avrebbero affrontato in modo collaborativo le sfide alla sicurezza globale e gestito la strategia nucleare. Questa proposta mirava a elevare la Francia a un ruolo di leadership all’interno della NATO, ma fu accolta con resistenza sia dagli Stati Uniti che dalla Gran Bretagna, che temevano di incoraggiare la proliferazione nucleare e alterare l’equilibrio esistente all’interno della NATO.
Le risposte di Eisenhower e Macmillan alle proposte di de Gaulle furono in gran parte evasive, riflettendo una preferenza per soluzioni burocratiche rispetto a sostanziali cambiamenti strutturali. Questo approccio si rivelò in ultima analisi inefficace contro lo stile assertivo di de Gaulle. Frustrato dalla mancanza di un serio impegno con le sue proposte, de Gaulle intensificò i suoi sforzi per affermare l’indipendenza francese, culminando nel ritiro delle forze francesi dal comando militare integrato della NATO e nell’espulsione delle armi nucleari americane dal territorio francese.
Queste azioni sottolinearono le profonde differenze negli approcci americano e francese alla strategia nucleare e alla politica delle alleanze, evidenziando le sfide nel mantenere l’unità tra i membri della NATO con interessi nazionali e culture strategiche divergenti. Le politiche di de Gaulle miravano non solo a rafforzare l’autonomia francese, ma anche a rivedere i principi fondamentali della cooperazione per la sicurezza internazionale nell’Era Nucleare.
John F. Kennedy rappresentò una nuova era di leadership americana, che aveva partecipato alla Seconda Guerra Mondiale ma non ne aveva plasmato la direzione né l’ordine iniziale del dopoguerra. La sua amministrazione cercò di trasformare l’Alleanza Atlantica da una postura difensiva contro l’aggressione sovietica in una Comunità Atlantica proattiva, orientandosi verso quello che sarebbe stato successivamente definito un nuovo ordine mondiale.
Kennedy e il suo Segretario della Difesa, Robert McNamara, erano particolarmente preoccupati per la dottrina militare tradizionale della rappresaglia massiccia, che comportava il rischio di una guerra nucleare catastrofica. Svilupparono una strategia di risposta flessibile, che enfatizzava una gamma di opzioni militari tra l’annientamento totale e la resa completa, e rafforzava il ruolo delle forze convenzionali. Questo approccio richiedeva il controllo centrale sulle armi nucleari, che Kennedy e la sua amministrazione consideravano critico per prevenire un approccio frammentato, e potenzialmente catastrofico, alla guerra nucleare.
L’amministrazione Kennedy propose la Forza Multilaterale della NATO (MLF) per integrare le capacità nucleari della NATO. Questo piano prevedeva il dispiegamento di missili a raggio intermedio su navi con equipaggi multinazionali sotto il comando della NATO, con gli Stati Uniti che mantenevano il controllo ultimo. Tuttavia, questa soluzione fu criticata per essere ridondante o inefficace nell’affrontare i dilemmi nucleari della NATO.
Kennedy sostenne anche un’Europa politicamente ed economicamente integrata che si sarebbe posta come partner paritario degli Stati Uniti nella leadership globale. Egli immaginava questa partnership come una relazione reciproca, in cui Europa e Stati Uniti avrebbero condiviso equamente le responsabilità globali. Tuttavia, questa visione fu accolta con scetticismo in Europa, in particolare a causa delle implicazioni militari della strategia di risposta flessibile che suggeriva che gli Stati Uniti potessero controllare l’escalation del conflitto nucleare, potenzialmente lasciando l’Europa a rischio.
Il dibattito sull’integrazione militare all’interno della NATO evidenziò le differenze filosofiche tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei, in particolare la Francia. Gli Stati Uniti vedevano la NATO operativamente con ogni nazione che manteneva il comando nazionale in tempo di pace, una posizione che consentiva il dispiegamento di forze al di fuori degli obblighi della NATO come si è visto in vari conflitti. I francesi, sotto de Gaulle, vedevano il monopolio nucleare americano e le sue implicazioni come un fattore diminuente dell’autonomia europea in materia di sicurezza, portando alla sua spinta per una capacità nucleare francese indipendente.
La controversia Skybolt esacerbò queste tensioni, con de Gaulle che percepiva la “relazione speciale” anglo-americana come una minaccia allo status e all’autonomia francesi. La successiva offerta di Kennedy di assistere il programma missilistico francese fece poco per alleviare queste preoccupazioni, portando al pubblico rifiuto di de Gaulle delle proposte statunitensi e al suo veto all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato Comune, evidenziando la sua preferenza per un assetto europeo libero da una schiacciante influenza statunitense.
Gli sforzi di de Gaulle culminarono nella firma di un trattato di amicizia con la Germania, inteso a solidificare la cooperazione franco-tedesca e a controbilanciare l’influenza delle politiche anglo-americane in Europa. Questo trattato, in gran parte simbolico, sottolineò la continua divergenza nelle visioni americane ed europee sulla cooperazione e sulle dinamiche delle alleanze.
In ultima analisi, la visione di Kennedy di una partnership atlantica cooperativa si scontrò con l’approccio di de Gaulle, che enfatizzava l’autonomia europea e lo scetticismo verso i quadri globali guidati dagli Stati Uniti. Questo conflitto sottolineò le sfide inerenti nell’allineare le visioni americana ed europea dell’ordine internazionale, in particolare nel contesto della strategia nucleare e dell’influenza geopolitica.
Con il progredire della Guerra Fredda, e successivamente, con la sua fine, le dinamiche all’interno della NATO e tra Stati Uniti ed Europa si evolvettero. La scomparsa della minaccia sovietica e l’emergere di una distribuzione del potere globale più equilibrata resero necessaria una rivalutazione delle strategie di cooperazione, riflettendo una complessa interazione di interessi nazionali e stabilità regionale che continua a plasmare le relazioni internazionali nell’era post-Guerra Fredda.
Puoi leggere il riassunto del capitolo successivo del libro cliccando su questo link.
Lascia un commento