
Nel 1994, Henry Kissinger pubblicò il libro L’arte della diplomazia. Era uno studioso e diplomatico rinomato che servì come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato degli Stati Uniti. Il suo libro offre un’ampia panoramica della storia degli affari esteri e dell’arte della diplomazia, con un focus particolare sul XX secolo e sul mondo occidentale. Kissinger, noto per il suo allineamento con la scuola realista delle relazioni internazionali, indaga i concetti di equilibrio di potere, ragion di Stato e Realpolitik attraverso diverse epoche.
La sua opera è stata ampiamente lodata per la sua portata e i dettagli intricati. Tuttavia, ha anche affrontato critiche per la sua enfasi sugli individui piuttosto che sulle forze strutturali, e per presentare una visione riduttiva della storia. Inoltre, i critici hanno anche sottolineato che il libro si concentra eccessivamente sul ruolo individuale di Kissinger negli eventi, potenzialmente sopravvalutando il suo impatto. In ogni caso, le sue idee meritano considerazione.
Questo articolo presenta un riassunto delle idee di Kissinger nel secondo capitolo del suo libro, intitolato “Il Cardine: Theodore Roosevelt o Woodrow Wilson”.
Puoi trovare tutti i riepiloghi disponibili di questo libro, oppure puoi leggere il riassunto del capitolo precedente del libro, cliccando su questi link.
All’inizio del XX secolo, l’America passò dalla sua tradizionale posizione isolazionista nella politica estera a un ruolo più attivo negli affari mondiali, spinta dalla sua crescente potenza e dal declino del sistema internazionale centrato sull’Europa. Questo cambiamento fu notevolmente plasmato dai presidenti Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, ognuno con una filosofia distinta.
Roosevelt, comprendendo le dinamiche del potere globale, sosteneva il coinvolgimento americano negli affari internazionali come una necessità per l’interesse nazionale e l’equilibrio globale. Al contrario, l’approccio di Wilson era più idealista. Credeva che il ruolo dell’America nel mondo fosse quello di diffondere i suoi principi democratici. La sua amministrazione segnò l’emergere dell’America come attore globale chiave, introducendo idee che equiparavano la pace alla democrazia, la condotta etica per gli Stati e l’adesione al diritto universale. Questi concetti, sebbene inizialmente accolti con scetticismo dai diplomatici europei, hanno influenzato in modo duraturo la politica estera americana.
La politica estera americana affonda le sue radici nei primi anni della Repubblica, riflettendo una ricerca strategica degli interessi nazionali. Inizialmente, ciò significava mantenere l’indipendenza navigando abilmente tra le potenze europee, in particolare durante la Rivoluzione Francese . I Padri Fondatori, non desiderando che né la Francia né la Gran Bretagna dominassero, adottarono una politica di neutralità, utilizzandola come strumento diplomatico. Jefferson caratterizzò le Guerre Napoleoniche come una lotta tra due tiranni, riflettendo una percezione di equivalenza morale e una forma precoce di non allineamento.
Contemporaneamente, gli Stati Uniti non si sottrassero all’espansione territoriale all’interno delle Americhe. Trattati chiave e acquisizioni come l’Acquisto della Louisiana nel 1803, che espanse significativamente il territorio degli Stati Uniti, facevano parte di questa strategia. Questa espansione non era vista come politica estera, ma come una questione interna. I leader americani, tra cui James Madison e James Monroe, giustificarono questa espansione come essenziale per la crescita della nazione verso una grande potenza, nonostante le loro critiche alla politica di potenza europea. Monroe, in particolare, sosteneva che l’espansione territoriale fosse cruciale per la sicurezza e lo status del paese come potenza maggiore, evidenziando l’importanza del territorio nel definire le caratteristiche e le risorse di una nazione.
I leader americani nella giovane nazione mantennero un impegno nei confronti dei principi dell’eccezionalismo, impiegando occasionalmente strategie di politica di potenza europea. Le nazioni europee spesso intrapresero guerre per prevenire l’ascesa di potenze dominanti, ma l’America, rafforzata dalla sua forza e dalla distanza geografica, era fiduciosa nell’affrontare le sfide man mano che si presentavano. L’avvertimento di George Washington contro le alleanze permanenti rifletteva questa fiducia e fu interpretato non solo come una strategia geopolitica, ma come un principio morale, allineato con la percezione che l’America aveva di sé stessa come baluardo della libertà.
La politica estera americana iniziale era sostenuta dalla convinzione che le frequenti guerre europee fossero dovute alla sua cinica arte di governo. I leader americani immaginavano un mondo in cui gli Stati agissero in modo cooperativo anziché come rivali. Respinsero la nozione che gli Stati dovessero essere soggetti a standard morali diversi dagli individui, come suggerito dalla diplomazia europea. Questa convinzione nella coerenza etica tra individui e nazioni era centrale nel pensiero americano.
Thomas Paine e altri attribuirono i frequenti conflitti europei a sistemi di governo che trascuravano la libertà e la dignità umana. La visione americana prevalente era che la pace dipendesse dalla promozione di istituzioni democratiche, con una convinzione costante che le democrazie siano intrinsecamente pacifiche. Tuttavia, Alexander Hamilton fu un’eccezione notevole, mettendo in discussione l’assunto che le repubbliche fossero più pacifiche di altre forme di governo.
Nonostante lo scetticismo di Hamilton, la convinzione americana dominante era che gli Stati Uniti avessero una responsabilità speciale nel diffondere i propri valori democratici come mezzo per garantire la pace mondiale. Ciò portò a dibattiti sull’opportunità per l’America di promuovere attivamente le istituzioni libere o semplicemente di dare l’esempio. Leader precoci come Thomas Jefferson credevano che l’America potesse meglio sostenere la democrazia praticando le sue virtù a livello nazionale, servendo da modello per gli altri.
Le basi morali della politica estera americana, unite alla sua prosperità e alle istituzioni funzionanti, non portarono a un conflitto percepito tra principi elevati e sopravvivenza. Tuttavia, questo approccio creò anche un’ambivalenza unica: se la politica estera americana doveva essere moralmente retta quanto la condotta personale, come si doveva analizzare la sicurezza? L’impegno dell’America per la libertà moralizzava automaticamente le sue azioni, e in che modo ciò differiva dalla ragion di Stato europea, che giustificava le azioni statali basandosi unicamente sul loro successo?
Questa ambivalenza americana, analizzata da studiosi come Robert Tucker e David Hendrickson, riflette il dilemma di desiderare i benefici del potere senza le tipiche conseguenze del suo esercizio. Questa tensione tra principi morali e arte di governo pragmatica è stata un tema ricorrente nella politica estera americana. Entro il 1820, gli Stati Uniti avevano trovato un compromesso, permettendo loro di mantenere la loro posizione critica nei confronti della politica di equilibrio di potere europea pur perseguendo il proprio espansionismo della “manifest destiny” attraverso il Nord America.
Fino al XX secolo, la politica estera americana fu diretta, concentrandosi sul compimento della sua manifest destiny ed evitando coinvolgimenti oltreoceano. Gli Stati Uniti sostenevano i governi democratici a livello globale ma si astenevano dall’applicare attivamente questa preferenza. John Quincy Adams incapsulò questa filosofia nel 1821, affermando che mentre l’America sosteneva la libertà e l’indipendenza in tutto il mondo, non avrebbe cercato conflitti esteri in cui impegnarsi. Questa politica includeva anche il mantenimento della politica di potenza europea fuori dall’Emisfero Occidentale, una posizione solidificata dalla Dottrina Monroe nel 1823.
La Dottrina Monroe fu una risposta ai tentativi della Santa Alleanza (Prussia, Russia, Austria) di sopprimere la rivoluzione in Spagna ed estendere potenzialmente la loro influenza nelle Americhe. Il Regno Unito, opponendosi all’intervento negli affari interni, propose un’azione congiunta con gli Stati Uniti per prevenire il controllo europeo sull’America Latina. Tuttavia, John Quincy Adams, diffidente nei confronti dei motivi britannici e reduce dalla guerra del 1812, consigliò al Presidente Monroe di affermare in modo indipendente che l’Europa non avrebbe dovuto interferire negli affari americani. Questa dottrina dichiarò effettivamente l’Emisfero Occidentale off-limits alla colonizzazione o all’interferenza europea e segnalò che qualsiasi tentativo del genere sarebbe stato considerato una minaccia alla pace e alla sicurezza degli Stati Uniti.
Questa politica permise agli Stati Uniti di espandere la propria influenza nell’Emisfero Occidentale senza impegnarsi nella tradizionale politica di potenza europea. Giustificò interventi per prevenire qualsiasi influenza europea nelle Americhe, come si vide nella motivazione del Presidente Polk per l’incorporazione del Texas nel 1845. La Dottrina Monroe fu gradualmente ampliata per giustificare l’egemonia americana nell’Emisfero Occidentale.
La Guerra Civile spostò temporaneamente l’attenzione dell’America dall’espansione territoriale, con la preoccupazione principale di prevenire il riconoscimento europeo della Confederazione. Dopo la guerra, la dottrina continuò a essere invocata per scopi espansionistici, incluso l’acquisto dell’Alaska. All’insaputa delle potenze europee, gli Stati Uniti stavano emergendo come una grande potenza globale, superando la Gran Bretagna nella produzione industriale alla fine del XIX secolo e sperimentando un massiccio aumento di risorse, popolazione e produzione industriale.
Nonostante questa crescita di potere, il Senato degli Stati Uniti mantenne l’attenzione sulle questioni interne, mantenendo l’esercito di piccole dimensioni ed evitando impegni internazionali. Tuttavia, man mano che il potere americano cresceva, cresceva anche la sua influenza nell’arena internazionale. Alla fine degli anni ’80 del XIX secolo, gli Stati Uniti iniziarono a rafforzare la loro marina, passando da una potenza relativamente insulare a una che non poteva resistere al richiamo di un ruolo più marcato sulla scena globale. Questo cambiamento segnò l’inizio di una nuova era nella politica estera americana, che iniziò a impegnarsi più direttamente negli affari internazionali.
Nel XIX secolo, nonostante la protezione offerta dalla Marina Reale Britannica, i leader americani consideravano la Gran Bretagna una sfida significativa e una minaccia strategica. Questa prospettiva portò gli Stati Uniti ad affermare il proprio dominio nell’Emisfero Occidentale, usando la Dottrina Monroe, ironicamente sostenuta dalla Gran Bretagna, come giustificazione. Entro la fine del 1800, gli Stati Uniti avevano sfidato con successo l’influenza britannica in America Centrale.
Man mano che gli Stati Uniti divennero supremi nell’Emisfero Occidentale, iniziarono a impegnarsi più ampiamente negli affari internazionali, crescendo fino a diventare una potenza mondiale quasi inavvertitamente. I leader americani, pur continuando a vedere gli Stati Uniti come un faro per il mondo, iniziarono a riconoscere che la loro potenza dava loro il diritto di avere voce in capitolo nelle questioni globali, anche prima che il mondo diventasse completamente democratico.
Theodore Roosevelt fu fondamentale in questo cambiamento. Fu il primo presidente ad affermare che gli Stati Uniti avrebbero dovuto influenzare attivamente gli affari globali, basandosi sull’interesse nazionale piuttosto che solo su principi morali. Vedeva gli Stati Uniti come una potenza qualsiasi, con il diritto di usare la propria forza per perseguire i propri interessi. Roosevelt espanse la portata della Dottrina Monroe, interpretandola come un diritto all’intervento degli Stati Uniti nell’Emisfero Occidentale. Questo approccio portò ad azioni come costringere Haiti a gestire i propri debiti, sostenere l’indipendenza di Panama dalla Colombia per stabilire la Zona del Canale e intervenire a Cuba e nella Repubblica Dominicana.
La posizione di Roosevelt segnò un allontanamento dalla visione americana tradizionale della politica estera. Vedeva il mondo come un palcoscenico di lotta e rifiutava l’idea che pace e moralità pubblica fossero sinonimi o che l’America fosse isolata dalle dinamiche globali. Per lui, la forza dell’America era essenziale per garantire la sua influenza e sopravvivenza.
Rifiutando le credenze tradizionali sull’efficacia del diritto internazionale e del disarmo, Roosevelt credeva nella necessità del potere per la protezione e l’influenza internazionale. Immaginava l’America come una grande potenza, che giocava un ruolo nel plasmare il XX secolo simile a quello che la Gran Bretagna aveva avuto nel XIX. La prospettiva di Roosevelt sulla politica estera era pragmatica e incentrata sul potere, in netto contrasto con le visioni idealistiche di molti dei suoi predecessori. Cercò di preparare l’America a un ruolo attivo e assertivo negli affari globali, sfidando le convinzioni a lungo radicate della nazione sul suo posto nel mondo.
Theodore Roosevelt fu critico nei confronti dell’idea di un governo mondiale e degli approcci pacifisti alle relazioni internazionali, sottolineando la necessità della forza sostenuta dall’uso della forza. Credeva nel concetto di “sfere d’influenza”, dove le grandi potenze esercitavano il loro controllo su specifiche regioni, come gli Stati Uniti nell’Emisfero Occidentale o la Gran Bretagna in India. Ad esempio, Roosevelt accettò l’occupazione giapponese della Corea, riconoscendo la realtà del potere sulla legalità dei trattati.
Roosevelt affrontò gli affari internazionali con una comprensione delle dinamiche di potere globale ineguagliata da nessun altro presidente americano, forse eccetto Richard Nixon. Inizialmente vedeva l’equilibrio di potere europeo come autoregolantesi, ma in seguito vide la Germania come una minaccia a questo equilibrio. Durante la Conferenza di Algeciras nel 1906, che mirava a determinare il futuro del Marocco, Roosevelt diede priorità agli interessi geopolitici rispetto a quelli commerciali, allineando gli interessi americani con quelli di Gran Bretagna e Francia.
In Asia, Roosevelt vedeva la Russia come una minaccia e quindi sostenne il Giappone, il principale rivale della Russia. Considerava un equilibrio tra Giappone e Russia ideale per mantenere l’equilibrio globale. Questo approccio lo portò a facilitare il Trattato di Portsmouth nel 1905, ponendo fine alla Guerra Russo-Giapponese e guadagnandogli il Premio Nobel per la Pace.
La neutralità iniziale di Roosevelt riguardo all’invasione tedesca del Belgio nella Prima Guerra Mondiale cambiò quando riconobbe la minaccia all’equilibrio di potere. Sostenne il riarmo e il supporto per la Triplice Intesa, vedendo una vittoria tedesca come pericolosa per gli interessi degli Stati Uniti. La sua preferenza per il controllo navale britannico rispetto all’egemonia tedesca fu influenzata dall’affinità culturale e dall’esperienza storica.
Il pensiero di Roosevelt era radicato nella realpolitik, in netto contrasto con l’idealismo che avrebbe caratterizzato la presidenza di Wilson. Se l’approccio di Roosevelt avesse definito la politica estera americana, avrebbe segnato un adattamento dei principi dell’arte di governo europea alle circostanze americane. Tuttavia, la politica estera americana si evolse oltre il mandato di Roosevelt, influenzata da un pubblico non completamente preparato al ruolo aggressivo negli affari globali che egli aveva immaginato. Questa evoluzione rifletté la lotta dell’America per conciliare i suoi valori tradizionali con la realtà di diventare una potenza mondiale.
In un colpo di scena della storia, l’America assunse infine il ruolo di leadership globale che Theodore Roosevelt aveva immaginato, ma secondo principi che egli criticava e guidata da un presidente che disprezzava: Woodrow Wilson. Wilson personificò l’eccezionalismo americano e plasmò l’approccio intellettuale dominante alla politica estera degli Stati Uniti. Mentre Roosevelt aveva una profonda comprensione della politica internazionale, fu Wilson a sfruttare la percezione che l’America aveva di sé stessa come nazione eccezionale, non disposta a impegnarsi nella diplomazia moralmente neutrale e basata sul potere comune in Europa.
La capacità di Wilson di connettersi con gli ideali del pubblico americano fu notevole. Divenne presidente a causa di una scissione nel Partito Repubblicano e comprese che l’isolazionismo intrinseco dell’America poteva essere superato solo facendo appello alla sua fede in ideali unici ed eccezionali. Wilson guidò gradualmente una nazione isolazionista nella Prima Guerra Mondiale, sottolineando l’impegno dell’America per la pace e la sua mancanza di interessi nazionali egoistici.
Nei suoi primi discorsi, Wilson espose la sua visione delle relazioni internazionali, dando priorità al diritto universale, alla fiducia reciproca e all’arbitrato rispetto alla forza. Roosevelt, che valorizzava il potere e la volontà di usarlo, trovava i principi elevati di Wilson frustranti e inefficaci. Wilson, al contrario, credeva che l’influenza dell’America dipendesse dal suo percepito altruismo e immaginava gli Stati Uniti come mediatori nel conflitto europeo, facendo leva sui suoi valori superiori.
La politica di Wilson era tutt’altro che isolazionista; riguardava l’affermazione dell’applicabilità universale dei valori americani e l’impegno della nazione a diffonderli. Riaffermò gli ideali americani tradizionali—la libertà come faro, la superiorità morale delle democrazie, una politica estera etica e gli obblighi morali dello Stato—ma con uno zelo universale, quasi missionario.
La visione di Wilson dell’America come favorita divinamente e motivata altruisticamente implicava un ruolo globale più ampio della visione di Roosevelt. Roosevelt aveva immaginato l’America come una nazione potente all’interno dell’equilibrio di potere esistente, mentre Wilson aspirava a che l’America guidasse una trasformazione nelle relazioni internazionali basata sulla superiorità morale e sull’altruismo. Questo approccio stabilì un precedente per le pretese di leadership americana basate sulla non egoismo, una nozione che i leader stranieri trovavano spesso imprevedibile rispetto alle politiche più calcolabili guidate dall’interesse nazionale. La visione idealistica di Wilson gettò le basi per un ruolo negli affari globali che si estendeva oltre il mantenimento di un equilibrio di potere, puntando a un’influenza morale ed etica più elevata a livello mondiale.
Woodrow Wilson indirizzò l’America su un percorso vastamente diverso dall’arte di governo tradizionale. Rifiutando l’equilibrio di potere, credeva che la grandezza dell’America risiedesse nel suo altruismo e nei suoi valori. Già nel 1915, Wilson avanzò l’idea che la sicurezza dell’America fosse legata alla sicurezza globale, implicando un dovere di opporsi all’aggressione in tutto il mondo. Questa nozione posizionò l’America come guardiano globale della libertà, un precursore della politica di contenimento dell’era post-Seconda Guerra Mondiale.
Roosevelt, uno statista guerriero, non avrebbe potuto prevedere un interventismo globale così. Al contrario, Wilson, il profeta-sacerdote, trasformò la neutralità americana in una crociata per la libertà globale. Reinterpretò l’avvertimento di George Washington contro i coinvolgimenti stranieri, sostenendo che nulla che riguardasse l’umanità potesse essere estraneo all’America, concedendo così agli Stati Uniti un mandato per l’intervento globale.
L’approccio di Wilson trasformò la Prima Guerra Mondiale in una crociata morale piuttosto che in un conflitto di interessi nazionali. Inquadrò la guerra come una battaglia per la democrazia e la libertà, non come una risposta a specifiche rimostranze o interessi strategici. Per Wilson, la guerra non riguardava gli interessi nazionali in conflitto, ma l’assalto della Germania all’ordine internazionale. Personalizzò il conflitto, prendendo di mira l’Imperatore tedesco, rendendo così impossibile un compromesso e sostenendo la vittoria totale.
Le visioni di Wilson divennero ampiamente accettate, influenzando persino figure come Herbert Hoover. La guerra fu vista come una battaglia tra bene e male, con l’America come difensore della libertà. Questa posizione richiese un completo rinnovamento dell’ordine globale, non solo la sconfitta della Germania. Wilson immaginava un mondo reso sicuro per la democrazia, dove la pace fosse mantenuta attraverso partenariati tra nazioni democratiche.
Se l’approccio di Roosevelt fosse prevalso, la partecipazione americana alla guerra si sarebbe basata sugli interessi nazionali, simile alla politica estera storica della Gran Bretagna. Gli Stati Uniti avrebbero mirato a impedire a qualsiasi singola potenza di dominare l’Europa o l’Asia. Nella visione di Wilson, tuttavia, gli Stati Uniti dovevano diffondere la democrazia e la libertà, un compito che richiedeva un impegno internazionale continuo.
La leadership di Wilson segnò un punto di svolta per l’America, cambiando fondamentalmente la direzione della sua politica estera. Invece di concentrarsi sull’interesse nazionale, Wilson avviò l’America su un percorso di crociata morale, cambiando il modo in cui il paese interagiva con il resto del mondo e preparando il terreno per il suo futuro ruolo negli affari globali.
Wilson cambiò radicalmente l’approccio della politica estera americana, sostenendo un ruolo globale basato su principi morali piuttosto che sulla tradizionale politica di potenza. Criticò il sistema europeo di equilibrio di potere e propose una “comunità di potere”, che in seguito si evolse nel concetto di sicurezza collettiva. Questa idea immaginava un ordine mondiale mantenuto da un consenso morale di nazioni amanti della pace, in netto contrasto con la visione di Roosevelt di mantenere la pace attraverso la forza e le alleanze.
La Società delle Nazioni di Wilson fu progettata per incarnare questo nuovo approccio, in cui il potere avrebbe ceduto il passo alla moralità e l’opinione pubblica avrebbe dettato le relazioni internazionali. Credeva che i governi democratici in tutto il mondo e un nuovo codice diplomatico d’onore fossero necessari affinché questo sistema funzionasse efficacemente. Questa visione idealistica mirava a eliminare il potere unilaterale e arbitrario che poteva interrompere la pace globale.
Il Wilsonismo rappresentò un profondo cambiamento nel pensiero americano sulla politica estera. Ogni presidente americano dopo Wilson ha ripreso i suoi temi, sebbene con interpretazioni e applicazioni variabili. Tuttavia, le sfide pratiche nell’attuazione della sicurezza collettiva divennero evidenti. Le nazioni spesso non erano d’accordo sulla natura delle minacce e sulla loro volontà di affrontarle, come si vide in numerose crisi internazionali.
Questo approccio evidenziò anche una divisione nel pensiero americano: gli Stati Uniti dovrebbero difendere i propri interessi di sicurezza indipendentemente da come vengono sfidati, o dovrebbero resistere solo ai cambiamenti illegali? Il Wilsonismo implicava che l’America fosse più preoccupata dal metodo del cambiamento piuttosto che dai propri interessi strategici, portando a dibattiti sul diritto morale dell’America di intervenire negli affari internazionali.
Roosevelt, se fosse vissuto, non avrebbe concordato con l’approccio di Wilson, credendo che la pace non fosse naturale e potesse essere mantenuta solo attraverso la forza e la vigilanza. La sua prospettiva sugli affari esteri svanì dopo la sua morte, senza che alcuna significativa scuola di politica estera americana invocasse le sue idee da allora.
Nonostante la Società delle Nazioni non abbia messo radici in America, la vittoria intellettuale di Wilson fu significativa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’America contribuì a stabilire le Nazioni Unite basate sui principi wilsoniani. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti inquadrarono il loro conflitto con il comunismo come una lotta morale per la democrazia, e il crollo del comunismo vide un ritorno alle idee wilsoniane di sicurezza collettiva e diffusione della democrazia.
L’eredità di Wilson è l’incarnazione del ruolo dell’America nel mondo: un’ideologia rivoluzionaria con una preferenza interna per lo status quo, trasformando spesso la politica estera in una lotta tra bene e male. Questo approccio ha talvolta portato a disagio nei confronti del compromesso e a risultati inconclusivi. Nonostante le sfide nell’attuare questi ideali in un mondo complesso, l’America ha largamente plasmato l’ordine globale post-bellico, sforzandosi di essere il faro di speranza e guida che Wilson aveva immaginato.
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